Può davvero uno degli uomini più ricchi del mondo insegnarci ad «evitare il disastro climatico»? Ecco cosa c’è che non va nell’ambientalismo del boss di Microsoft
Articolo di Giulio Calella
Per circa vent’anni secondo la rivista Forbes è stato l’uomo più ricco del mondo, sorpassato solo nel 2017 dal fondatore di Amazon Jeff Bezos. Creatore di Microsoft, è osannato come colui che ha rivoluzionato le nostre vite coronando il sogno di portare un personal computer in ogni casa. Adesso sostiene di occuparsi principalmente di filantropia, attraverso la fondazione benefica che dirige insieme a sua moglie, eppure negli anni ha avuto guai giudiziari per concorrenza sleale e violazione delle regole antitrust ed è stato a lungo il principale simbolo dei monopoli capitalistici del nuovo millennio.
Oggi, con il libro Clima. Come evitare un disastro uscito a febbraio per La nave di Teseo e stabilmente nelle classifiche dei saggi più venduti, Bill Gates unisce all’indole di grande innovatore uno sbandierato intento filantropico proponendosi come colui che può indicare la via per fermare il disastro climatico e trasformarlo in grande occasione di innovazione tecnologica.
Nel bel mezzo di un disastro pandemico le cui cause sono strettamente collegate ai fenomeni che caratterizzano la crisi climatica, si pone in effetti il problema più urgente per il prossimo futuro, per evitare nuove epidemie e la vera e propria distruzione del pianeta. La cosa curiosa è che in quest’ultimo anno si sono invece moltiplicate diverse fantasie di complotto che individuano non nella crisi climatica ma proprio in Bill Gates la causa della pandemia: proprio lui avrebbe diffuso il Coronavirus nel mondo – non è ben chiaro come – per poi controllarci tutti forse tramite un microchip inserito nel vaccino. La prova sarebbe una conferenza organizzata proprio dalla Bill and Melinda Gates Foundation nell’ottobre 2019 in cui i due proponevano a esponenti politici e dell’Organizzazione mondiale della sanità di simulare una risposta coordinata a un’ipotetica pandemia, ispirata all’ondata di Sars del 2002.
Tale assurda fantasia di complotto che attaccava uno degli uomini più potenti del mondo si è rivelata – come spesso accade – un regalo allo stesso Bill Gates: le ovvie smentite hanno finito infatti per rafforzare gli elogi per il suo curriculum e per l’opera filantropica della sua fondazione, aumentando la sua credibilità anche come leader in grado di fermare il disastro climatico. Ma la salvezza di un pianeta devastato dal dominio della legge del profitto può essere delegata a colui che negli ultimi 25 anni ha messo insieme più profitti di tutti?
Abbiamo inquinato ma a fin di bene
Il libro di Bill Gates ha il merito di non indugiare nei diversivi colpevolizzanti che guardano unicamente ai comportamenti individuali sorvolando sulle emissioni inquinanti dei processi produttivi delle nostre società. La produzione è infatti al centro della sua analisi, così come i processi attraverso i quali ricaviamo energia elettrica, i metodi con cui coltiviamo la terra e alleviamo gli animali, i mezzi con cui ci spostiamo e quelli con cui riscaldiamo e rinfreschiamo gli ambienti.
Non nasconde insomma che l’attuale modello di produzione porti dritto verso il disastro, nel suo racconto però il capitalismo sembra aver sempre agito a fin di bene. È vero che la deforestazione è una brutta cosa, sostiene, ma è servita a produrre più cibo per sfamare una popolazione mondiale che cresce e deve divenire sempre meno povera; è vero che la plastica inquina, ma è un materiale fantastico che ci ha permesso di utilizzare strumenti che accrescono la qualità della nostra vita; è vero che la produzione di cemento e acciaio aumenta le emissioni ma ha una funzione essenziale; è vero che aerei e automobili inquinano, ma è bello che tutti possano viaggiare, e via discorrendo. «Non possiamo pretendere che i poveri restino tali – scrive sempre fedele al suo approccio filantropico – perché i paesi ricchi hanno emesso troppi gas serra […] dobbiamo invece offrire alle persone con un basso reddito l’opportunità di salire la scala senza aggravare il problema climatico».
Il problema insomma non starebbe in cosa, quanto e perché produciamo ma solo sul come. Il disastro climatico è sostanzialmente un problema tecnologico: «Sottoponetemi un problema e cercherò una tecnologia per risolverlo». Per questo, spiega, avere troppa fretta può indurre in errore portando a utilizzare tecnologie sbagliate. La data fissata dall’Ipcc – la conferenza sul clima dell’Onu – entro cui ridurre drasticamente le emissioni e ripresa con forza dai movimenti globali contro la crisi climatica, il 2030, è per lui così irrealistica da rivelarsi dannosa. Bisogna prenderla con più calma puntando al 2050 per poter investire nella ricerca delle tecnologie che permettano di produrre come e più di prima, con gli stessi o maggiori profitti, ma a emissioni zero.
Per Bill Gates il miglior mondo possibile rimane per definizione sempre quello fondato sulla ricerca del massimo profitto, e finché quasi tutte le soluzioni a zero emissioni sono per le imprese più costose dei loro corrispettivi basati sui combustibili fossili sarà impossibile fermare il disastro. L’intervento statale deve servire unicamente per rendere più profittevole la produzione verde, per ridurre quello che definisce il «Green Premium» – ossia il costo aggiuntivo dovuto all’utilizzo di un’alternativa ecologica – attraverso disincentivi che diano un prezzo all’inquinamento, come la carbon tax, e incentivi fiscali per produzioni green; acquistando per servizi pubblici materiali a zero emissioni dalle aziende che li producono; e soprattutto investendo nella ricerca quando il settore privato non è disposto a farlo perché non intravede la possibilità di trarne profitti. Non appena poi diventa chiaro come un’impresa possa realizzare degli utili, subentra ovviamente il settore privato. Arrivederci e grazie.
L’idea di arrivare al 2050 e sforare temporaneamente la soglia di riscaldamento climatico di 1,5°C, prevista dall’Ipcc nel 2030 in assenza di politiche in grado di abbattere subito drasticamente le attuali emissioni, è però degna di un apprendista stregone perché le conseguenze sugli anni successivi non sono facilmente prevedibili e appare molto improbabile che si possa successivamente tornare indietro. Secondo Bill Gates invece mentre aspettiamo che l’economia a zero emissioni sia compatibile con il capitalismo «quasi tutte le persone dovranno adattarsi a un pianeta più caldo». Ossia – ci spiega nel libro – si dovrà ripensare a dove allocare case e aziende, puntellare le reti elettriche, le città portuali, i ponti e finanziare vari progetti di adattamento. Il tutto sarebbe più conveniente rispetto a soluzioni tecnologiche che attualmente non producono profitto. Ma conveniente per chi?
Al clima ci penso io
Bill Gates racconta di aver subito ammirato ed espresso simpatia per gli attivisti in mobilitazione per il clima, ma di esser rimasto molto perplesso quando in un articolo del Guardian gli venne chiesto di vendere le azioni di aziende di combustibili fossili che deteneva la sua fondazione. «Non capivo come potesse bastare un semplice disinvestimento per fermare il cambiamento climatico o aiutare la popolazione dei paesi poveri […] la penso ancora così ma non voglio guadagnarci se il valore delle loro azioni cresce perché non riusciamo a sviluppare alternative a emissioni zero», per questo le ha vendute investendo nella ricerca di alternative. Ammette anche di avere una pesante «impronta ecologica personale», muovendosi con un Jet privato ed essendo proprietario di molte case, molto grandi. Ma, spiega, «ho investito complessivamente oltre un miliardo di dollari in approcci che spero aiuteranno il mondo ad azzerare le emissioni».
Elencando le varie proposte di innovazione tecnologica che riempiono la parte centrale del libro, alcune sicuramente interessanti, Bill Gates cita infatti alcuni degli importanti investimenti nell’economia green che ha fatto in questi anni.
Innanzi tutto ha fondato la Breakthrough energy coalition, un gruppo mondiale di 28 investitori ad alto patrimonio intenzionati a investire nel settore dell’«energia pulita», di cui fanno parte altri due miliardari del calibro di Jeff Bezos e Mark Zuckemberg; è proprietario di azioni di una società che gestisce un impianto per l’assorbimento di anidride carbonica dall’aria; ha investito in alcune start-up di batterie per migliorare del triplo la capacità energetica rispetto a quelle attualmente esistenti; è socio di una società che progetta di produrre acciaio con energia elettrica al posto dei combustibili fossili e di un’altra che produce biocarburanti in grado di convertire alberi in carburante; è proprietario di due società che hanno sul mercato prodotti a base di carne vegetale come alternativa al consumo di carne animale (Beyond Meat e Impossibile Foods); e ha fondato Terra Power, azienda di progettazione di reattori nucleari di ultima generazione. Non a caso definisce proprio l’energia nucleare come l’unica fonte di energia a zero emissioni che abbia già dimostrato di funzionare su larga scala e che «uccide molto meno persone delle automobili», dando l’idea che il ritorno al nucleare, sfruttando lo shock della crisi climatica, sia al momento la prima strada immediatamente disponibile.
Come si evince dai suoi investimenti, a uno che non manca certo il fiuto per gli affari non sfugge che la transizione ecologica può essere trasformata in una grande occasione di business. Ma per poterlo fare con profitti adeguati ha bisogno di tempo. E di aiuto. Bill Gates del resto è tra i principali esponenti di quello che viene definito filantrocapitalismo, che a guardar bene ha inventato un nuovo modello di beneficenza in cui i poveri sono spesso solo i (presunti) beneficiari indiretti dell’azione benefica, mentre quelli diretti sono le grandi imprese, ossia i ricchi. Bisogna aiutare i ricchi perché possano produrre ricerche, tecnologie o merci di cui poi beneficeranno i poveri. E anche in questo caso Bill Gates propone in fondo di aiutare i ricchi – tra cui il migliore è ovviamente lui.
L’impossibile capitalismo verde
Bill Gates non è al centro di un complotto che ha portato alla pandemia, ma è al centro del sistema capitalista e ne interpreta perfettamente la visione del mondo. Per questo rimuove il problema che la distruzione della natura fa parte della natura del capitalismo, la cui logica centrale è l’accumulazione infinita, ossia lo sfruttamento di una quantità sempre maggiore di risorse.
Per fermare il disastro climatico serve innovazione certo, ma occorre dare assoluta centralità all’interesse pubblico attraverso la pianificazione e la cooperazione e non mantenendo un sistema votato all’ipercompetizione. Il compito delle nuove tecnologie non deve essere quello di salvare il capitalismo ma di contribuire a costruire una società in cui si produca di meno, si trasporti di meno, si lavori di meno e si condivida di più. In cui la produzione sia realmente in funzione dei bisogni umani decisi democraticamente nel rispetto degli ecosistemi e non spinta dalla logica della massimizzazione del profitto.