Nato a Milano nel 1974, mostra molto presto un vivo interesse per il fotogiornalismo
Diplomato in fotografia, presso l’Istituto Europeo di Design (IED), approfondendo gli aspetti imprenditoriali, alla ricerca di giovani e nuovi talenti. Lavora principalmente su progetti a lungo termine ed è affascinato da temi multiculturali e questioni sociali. Negli ultimi anni sta seguendo una personale ricerca su religione, riti, cerimonie in giro per il mondo, utilizzando l’aspetto spirituale come pretesto per raccontare storie di persone o popolazioni. I suoi lavori sono stati pubblicati su Die Zeit, Washington Post, D La Repubblica, Sette Corriere della Sera, Panorama, Io Donna, Aftenposten, Vanity Fair, Gioia, Svenska Dagbladet, Brigitte, Marie Claire, Woz, Emaho. È anche membro fondatore e direttore di Echo Photojournalism.
Ecco chi è il fotogiornalista Gianmarco Maravaglia prossimo ospite della seconda puntata di “Anno 2021: dove va la fotografia?” rientrato ieri a Milano da un viaggio di lavoro in Iraq.
Diplomato in fotografia, presso l’Istituto Europeo di Design (IED), approfondendo gli aspetti imprenditoriali, alla ricerca di giovani e nuovi talenti. Lavora principalmente su progetti a lungo termine ed è affascinato da temi multiculturali e questioni sociali. Negli ultimi anni sta seguendo una personale ricerca su religione, riti, cerimonie in giro per il mondo, utilizzando l’aspetto spirituale come pretesto per raccontare storie di persone o popolazioni. I suoi lavori sono stati pubblicati su Die Zeit, Washington Post, D La Repubblica, Sette Corriere della Sera, Panorama, Io Donna, Aftenposten, Vanity Fair, Gioia, Svenska Dagbladet, Brigitte, Marie Claire, Woz, Emaho. È anche membro fondatore e direttore di Echo Photojournalism.
Ecco chi è il fotogiornalista Gianmarco Maravaglia prossimo ospite della seconda puntata di “Anno 2021: dove va la fotografia?” rientrato ieri a Milano da un viaggio di lavoro in Iraq.
Tony Graffio ha intervistato Gianmarco Maraviglia per farlo conoscere agli ascoltatori di Radio Atlanta Milano prima della trasmissione in cui sarà ospite della nostra emittente il prossimo mercoledì 31 marzo 2021
TG- Gianmarco, come sei arrivato alla fotografia di reportage?
GM- Ci sono arrivato attraverso un percorso abbastanza elaborato e discontinuo; dopo aver frequentato l’università, mi sono iscritto ad un corso dello IED, da lì ho iniziato a lavorare in campo fotografico facendo lavori diversi: all’inizio come “paparazzo”, poi occupandomi di fotografare le macchine. Sono passato anche attraverso la fotografia di moda e di food, per un breve periodo, mi sono dedicato ad esperienze di vario tipo, fino a quando sono stato chiamato a dirigere un’agenzia fotogiornalistica.
Per qualche anno, ho ricoperto questo importante ruolo all’interno di una società italiana, ma non facevo parte del gruppo dei fotografi di quell’agenzia di stampa.
Questa esperienza mi ha fatto capire che io stesso volevo lavorare in un’agenzia con delle caratteristiche ben precise che fossero congegnate al mio modo d’essere e che mi permettessero di effettuare un approfondimento giornalistico dei fatti trattati.
Nel 2013, ho fondato Echo Photojournalism ed ho chiamato a collaborare con me degli amici e dei colleghi internazionali con cui avevo già avuto modo di lavorare e siamo diventati una piccola famiglia che si occupa di varie tematiche.
TG- Perché hai scelto di fare del reportage?
GM- Mah, io considero il reportage come una missione, allo stesso modo di chi sceglie di fare il medico o il prete. Io non avevo intenzione di fare nient’altro al di fuori di questa cosa, perché a tutti noi che facciamo questo lavoro piace sentirci parte di quello che succede nel mondo. Questa scelta nasce ovviamente anche da un forte desiderio di denunciare alcune situazioni perché crediamo molto nel valore etico di portare all’attenzione del pubblico certe storie che magari non sono molto conosciute. Ci piace anche aver la possibilità di viaggiare, essere al centro di quello che succede.
Sono un po’ queste le mie motivazioni.
TG- Spiegami meglio queste affermazioni; ti interessa vivere nella tua epoca e nei fatti che segnano questi tempi? O vuoi essere nel pieno dell’evento per vivere totalmente l’esperienza conoscitiva di ciò che avviene?
GM- Entrambe le cose, poiché queste ragioni sono molto collegate tra loro.
Come giornalista, ovviamente, faccio dell’informazione un valore assoluto; i tempi in cui oggi vivo hanno un senso solo se conosco un po’ tutto di quello che avviene nel mondo.
Io non riesco a vivere per compartimenti stagni, no? Quello che io vivo qui in Italia è influenzato da quello che sta succedendo in Siria, o in Iraq, o anche in Svezia, se dovesse succedere qualcosa in Svezia. Penso che questo faccia un po’ parte del sentirsi cittadino del mondo, consapevole di quello che succede globalmente e non solo a casa tua, o nel tuo quartiere.
TG- Possiamo dire che si tratta di un interesse politico?
GM- Assolutamente, diciamo che è un interesse di tipo geo-politico.
TG- Perché hai chiamato la tua agenzia Echo?
GM- La mia agenzia si chiama Echo all’inglese, ma il significato italiano è lo stesso: eco, perché crediamo che quello che accade nel mondo, i grandi avvenimenti, che possono andare dalle guerre, alle rivoluzioni, ai grandi drammi internazionali, così come gli eventi lieti, felici, o importanti per altri motivi, lascino di loro una eco e questa eco sia origine di altre storie. I miei collaboratori ed io siamo più interessati a raccontare le storie che nascono dalla eco che queste storie lasciano nel mondo, piuttosto che raccontare l’evento stesso.
L’idea è quella di non seguire la prima linea, per esempio di quando accade una guerra, perché riteniamo che si capisca poco, solo dal raccontare quello che accade negli avamposti. Noi preferiamo arrivare un po’ dopo e vedere che cosa sta succedendo raccontando le storie delle persone che hanno subito l’evento, o che l’hanno vissuto in prima persona. E’ un giornalismo più lento, se vuoi, rispetto a chi fa giornalismo in senso stretto, mentre noi ci prendiamo un po’ più di tempo per fare l’approfondimento delle nostre storie.
TG- Secondo te, esiste anche un valore artistico delle fotografie che scatti in certe situazioni di cronaca, o d’approfondimento?
GM- Io non mi considero un artista, ma non mi piace nemmeno la parola fotogiornalista per descrivere il mio lavoro; io vorrei invertire i valori in campo perché l’etica giornalistica che mi permette di raccontare le fotografie che scatto è più importante, per me, delle mie stesse immagini, che ormai possono avere un valore relativo.
Il fotogiornalismo portato nelle gallerie è un discorso che stiamo iniziando ad affrontare perché stiamo iniziando a capire che c’è un interesse anche da parte di questo mercato che conosco poco, anche se capisco che la stessa storia la si può raccontare con un approccio visivo che può essere più adatto ad essere esposto in una galleria.
Questo fatto va benissimo, fintanto che tu non vai a compromettere l’integrità della storia che stai raccontando in quel momento. Si tratta semplicemente di raccontare una storia con un mezzo diverso, come può capitare di farlo raccontandola col video, per esempio.
Il fotogiornalismo, la fotografia d’arte ed il videoreportage sono tre approcci visivi diversi, per tre media diversi. La cosa importante non è che mezzo stai utilizzando in quel momento, ma che la storia che tu racconti rimanga la stessa.
TG- Il reportage funziona se lo si esprime sulle pagine dei giornali attraverso più scatti, mentre in galleria si può presentare o vendere anche una fotografia unica di quello stesso evento? Oppure voi proponete una serie di fotografie di quella storia anche alle gallerie?
GM- Noi proponiamo una serie di fotografie visivamente coerenti tra di loro. In genere noi, per il reportage, facciamo una selezione che va dalle 25 alle 40 fotografie, sapendo benissimo che il giornale quando poi ne utilizzerà 6,7,8, ne ha già utilizzate tante.
Questo è un grosso tema, perché noi comunque torniamo da un viaggio di diverse settimane, se non di più, con 7,8, 9, diecimila fotografie di un reportage. Dobbiamo fare quindi un grosso lavoro di scelta. Prima ce ne occupiamo arrivando a selezionare un centinaio d’immagini, dopo di che si fa una selezione definitiva in agenzia di circa una cinquantina di fotografie, poi il giornale te ne pubblicherà 6,7,8, quando va bene. Diciamo, per un massimo di dieci immagini.
La galleria invece fa tutto un altro tipo di discorso, può selezionare anche solo 5 fotografie coerenti nell’ambito della stessa storia Ad una galleria puoi proporre 10 immagini molto seriali per poi venderne una ad un collezionista ed un’altra ad un altra persona, non è importante che in quel caso si capisca precisamente ciò che si racconta, ma conta il fatto che ogni fotografia ha dietro una storia.
TG- In un reportage come si scelgono le immagini che fanno poi parte della storia? E’ importante che abbiano una sequenza cronologica precisa? Devono mostrare l’ambiente nella sua totalità e nel dettaglio (vari piani della stessa situazione)? Oppure ciò che conta è il momento saliente dell’azione? Come si descrive una storia?
GM- Questa è una domanda molto impegnativa. Intanto, bisogna dire che ognuno di noi che si pone sul mercato internazionale, ad un livello abbastanza elevato, per fare un certo tipo di giornalismo, non è un semplice cronista che va sul posto a prendere delle immagini.
Tutti noi siamo degli autori con un nostro specifico linguaggio che caratterizza ognuno di noi. Le fotografia di un fotogiornalista con un suo linguaggio sono immediatamente riconoscibili.
TG- Tu mi stai parlando di linguaggio o di stile?
GM- Non so bene definire lo stile in fotografia, per linguaggio io intendo il tuo modo di raccontare una storia che comprende perfino la storia stessa che tu decidi di raccontare.
Capita spesso che ti puoi indirizzare in un filone di storie che sono vicine al tuo tipo di sensibilità e possono essere molto simili tra loro. Oppure di storie molto diverse che però conservano un nucleo comune di un discorso che tu hai già fatto in altre storie. Questo fatto costituisce la tua uniformità narrativa. Poi, naturalmente, ognuno ha un suo modo d’approcciare il soggetto, d’inquadrarlo, d’utilizzare le luci. Ci sono tantissimi parametri che concorrono a formare un tuo linguaggio. Anche il tempo concorre a formare il tuo linguaggio, perché il linguaggio si forma, a volte, per degli errori che puoi aver fatto, ma che emotivamente ti piacciono, o ti possono andare bene.
TG- Chi sceglie le storie? Lo fa il fotografo? O l’agenzia? Si cerca un autore che possa essere più adatto alla storia? Come si procede?
GM- Generalmente la storia è scelta dal fotografo, poi ovviamente, se ne parla in agenzia.
Le agenzie contemporanee, come la nostra, sono diverse da quelle di un tempo. Le agenzie di 25 anni fa che avevano la capacità di produrre le storie e pagarle non esistono più. L’agenzia oggi serve a tante altre cose, serve anche a fare gruppo, avere un confronto interno, una linea editoriale, una diffusione del lavoro poi a livello commerciale, ma non certo a produrre una storia. Ogni fotografo si paga la produzione della propria storia ed è abbastanza normale che sia lui ad anticipare costi e spese per effettuare il servizio.
Noi siamo un’agenzia abbastanza particolare, siamo quasi un collettivo, ma è l’agenzia che ha un confronto col fotogiornalista che propone una storia. Spesso sono io a decidere l’interesse, o meno, che pensiamo possa avere il mondo editoriale per quella storia; quindi io ti posso dire: guarda, secondo me, questa storia qua è meglio se non la facciamo perché non funziona, non interessa, non riusciamo poi a venderla.
TG- Può capitare di non riuscire a rientrare con le spese?
GM- Può succedere, però, per fortuna, lavoriamo in un mercato abbastanza globale, sicuramente il mercato italiano non è il nostro mercato di riferimento. Noi vendiamo non tantissimo in Italia, vendiamo molto, molto di più all’estero. Estero vuol dire tanti paesi per cui noi riusciamo a vendere la stessa storia in più di un paese e quando tu la vendi in 2 o 3 paesi, ovviamente rientri bene.
TG- Vi capita d’essere gli unici reporter presenti in un determinato posto? O potete trovarvi a lavorare tra altri reporter provenienti da altre zone del mondo?
GM- Noi, non facendo attualità, magari andiamo a raccontare delle storie che abbiamo trovato leggendo un trafiletto di un giornale del Pakistan o del Nagorno Karabakh.
E’ difficile che qualcuno vada sulla stessa storia, però è anche ovvio che noi cerchiamo di raccontare delle storie che abbiano qualche collegamento con l’attualità, perché quello che cercano i giornali è esattamente questo: un retroscena di qualcosa che è già sulle pagine dei giornali.
TG- Le storie possono tornare ad essere d’attualità?
GM- Sì, le storie tornano d’attualità a seconda degli eventi, infatti noi proponiamo spesso delle nostre storie già realizzate un anno prima, due anni prima, anche su tematiche che per vari motivi sono tornate attuali.